Il lavoro cosiddetto in nero viene considerato dalla legge, a tutti
gli effetti come un vero e proprio lavoro subordinato a tempo
indeterminato.
Ad un lavoratore che abbia svolto attività di fatto spettano gli
stessi diritti, garanzie, retribuzioni e tutele previste dalla legge
per i dipendenti che siano stati assunti regolarmente.
Se per esempio, il datore di lavoro intima oralmente il
licenziamento a chi abbia lavorato in nero, ebbene detto
licenziamento è considerato illegittimo e non produce effetti,
proprio perché esso deve seguire le forme e le modalità previste
dalla legge per i lavoratori regolari.
Anche le retribuzioni delle persone assunte a nero devono
essere le stesse di quelle assunte con contratto regolare.
Quindi per esser chiari, tra le due categorie di lavoratori la
legge non pone differenze sul piano dei diritti e delle tutele solo
perché il datore di lavoro abbia voluto, per gli uni e non per gli
altri, regolarizzare il rapporto.
Per ottenere tale equiparazione e quindi il riconoscimento
delle differenze retributive, il trattamento di fine rapporto e
qualsiasi altra garanzia prevista per il lavoratore subordinato,
il lavoratore in nero deve instaurare una causa al proprio
datore di lavoro.
Durante la causa, per ottenere le differenze retributive è
necessario dimostrare che il lavoratore abbia svolto l’attività
all’interno dell’azienda, osservato con continuità gli orari di
lavoro, aver seguito le direttive impartitegli dal capo così come
tutti gli altri colleghi assunti con contratto regolare.
Si può ottenere anche il riconoscimento delle ferie, permessi e
festività non godute, purché si dia la prova che nel periodo di
lavoro non abbia utilizzato questi riconoscimenti spettanti ai
lavoratori subordinati.
A ricordare questo principio fondamentale è stata una recente
sentenza della Cassazione, la numero 9599/2013 del 19 aprile
2013.
In tale decisione, la Suprema Corte ha altresì chiarito che non
rileva che il lavoratore abbia fornito alcune dichiarazioni nel
libretto sanitario, dalle quali emergerebbe un impegno solo
saltuario presso l’azienda incriminata ( part time): si tratta
infatti di dichiarazioni tendenti a proteggere il datore di lavoro.
Dunque tale documento non ha alcun valore confessorio e non
serve a salvare l’impresa dalla condanna.
L'importante è sottolineare che la prestazione subordinata sia
stata di fatto svolta, a prescindere se e con quali forme.
Prevale quindi il cosiddetto “principio della effettività”, cioè
l'effettività della prestazione. Se la sostanza è quella di un
rapporto subordinato a tutti gli effetti, la legge lo considera
tale, riconoscendo al lavoratore tutte le conseguenti garanzie.
Anche la prestazione lavorativa in nero svolta per anni presso
un parente costituisce un rapporto subordinato a tempo
determinato.
Occorre far valere tale diritto tramite la testimonianza degli
altri dipendenti e tramite i documenti aziendali firmati
dall'interessato dove emerge che il lavoratore abbia nel corso
del suo lavoro osservato gli orari di lavoro e le direttive del
capo al pari dei colleghi assunti in maniera regolare.
Ricordiamo come requisito fondamentale che la causa al datore
di lavoro può essere intentata anche dopo la cessazione del
rapporto di lavoro purché non siano trascorsi cinque anni.
Per qualsiasi problema o chiarimento non esitate a contattarmi,
potete riprendervi tutto ciò che vi è stato tolto...